Arthur e l'unicorno.
Mar. 5th, 2012 12:27 am![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: Arthur e l'unicorno
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Arthur (Inghilterra), Charlie l'unicorno
Rating: giallo
Conteggio parole: 3109 (fdp)
Genere: fantasy, triste
Avvertenze: AU, implied morte del protagonista
Riassunto: Una cosa reale non poteva semplicemente cessare di esistere quando qualcuno decideva di negarne l'esistenza. Specialmente, non gli esseri magici, Arthur ne era convinto. E allora correva nel bosco, perché voleva assicurarsi che i suoi abitanti esistessero ancora, che tutti quei: "gli spiriti non esistono, Arthur!" non li avessero fatti dissolvere nel nulla.
Si sarebbe sentito molto in colpa, se fosse successo.
Note: partecipa alla sesta settimana del COWT2 @
maridichallenge, prima missione, squadra Magic Sticks, prompt: anno/i, e partecipa allo Zodiaco Challenge @
fiumidiparole, prompt: bad ending.
Hint: non ce la faccio più xD non vedo l'ora che il COWT finisca.
Arthur si era incamminato a piedi scalzi nella foresta, come era solito fare, quando le giornate si allungavano e le lunghe piogge invernali lasciavano spazio ai raggi di sole che penetravano nel fogliame tenero e appena nato degli alberi.
L'aria non era calda, quel pomeriggio, ma il tocco del sole era tiepido sulla sua pelle, mentre con i piedi nudi affondava nel terriccio umido del sottobosco. Aveva piovuto, nella notte, e le piante ancora gocciolavano d'acqua. Il ragazzino si divertiva ad osservare i calici delle foglie e dei primi fiori che ospitavano minuscoli laghi trasparenti. Ne spinse alcuni con le dita, provocando la caduta di piccole cascate sugli steli sottostanti, che si piegarono docili. Piccoli esseri alati uscirono svolazzando dal loro riparo di erbe, ed Arthur era abbastanza certo che alcuni di loro - dalle ali lunghe e traslucide nella luce pura del mattino - gli avessero rivolto sguardi arrabbiati e parole poco gentili. Chi era mai quel piccolo umano impertinente che veniva a disturbarli nei loro nascondigli?
Ma gli esseri si inabissarono nel verde circostante senza che Arthur potesse seguirli.
In realtà, Arthur sapeva che non avrebbe dovuto disturbare la natura. Questo era uno dei motivi per cui amava camminare scalzo nelle radure: non voleva calpestare qualche fiore, che poteva essere il favorito di qualche fatina dei boschi, o una delle fatine stesse, se avesse deciso di riposarsi in mezzo all'erba. Sapeva che, per quanto potessero apparire aggraziati e gentili, i silvani sapevano essere molto crudeli e vendicativi.
Inoltre, sua madre era già abbastanza apprensiva a vederlo allontanarsi da casa: non le piaceva affatto che lui passasse il suo tempo vagabondando da solo nel bosco invece che giocare con gli altri bambini del paese, se lui fosse tornato ferito o addirittura maledetto da qualche spirito degli alberi, questo avrebbe significato un imperituro divieto ad allontanarsi dal villaggio, ed Arthur temeva l'idea molto di più dei possibili pericoli del bosco.
Proseguì sul sentiero appena tracciato che lo guidava attraverso il bosco. Era così vivo ed allegro, il bosco, pensava Arthur, le fronde agitate dai cinguettii degli uccellini e dai salti degli scoiattoli – con così tanta vitalità attorno, come poteva fargli paura?
Già, non erano certo i rumori della natura che Arthur temeva, pensò mentre si fermava a riposare tra le radici di una grane quercia. Questi erano rumori confortevoli, famigliari, accoglienti. Gli faceva molto più paura il silenzio, piuttosto...
Come se, pensandolo, l'avesse chiamato a sè, eccolo, il silenzio.
Gli uccellini smisero per un attimo di cinguettare, ed una coppia di scoiattoli che aveva giocato a rincorrersi tra i rami bassi di un faggio si affrettò a scomparire nel fogliame. Durò poco, però, perché venne immediatamente rimpiazzato da schiamazzi fin troppo famigliari.
Erano i ragazzi del villaggio, Arthur lo capì subito.
Ma che volevano? Era raro che lo seguissero nel bosco. Di solito, lo facevano solo se avevano già avuto modo di vederlo per le vie del villaggio e non si erano accontentati di torturarlo lì... ma quella mattina Arthur era convinto di essere sgattaiolato fuori di casa senza essere notato da nessuno.
Evidentemente, si era sbagliato.
Spaventato, si alzò in fretta dalla sua comoda poltrona tra le radici dell'albero e fece per darsi alla fuga, ma gli altri furono nella radura prima che lui potesse darsela a gambe.
"Arthur, stupido Arthur! Sei venuto a parlare con i tuoi amici gnomi?!" lo canzonarono, raggiungendolo e strattonandolo per il cappuccio del mantello.
Il ragazzino biondo non rispose, stoico. Non importava quello che avrebbe detto, tanto: ormai lo avevano circondato e sapeva come sarebbe andata a finire, quando iniziavano.
"Non parli? O forse un unicorno ti ha mangiato la lingua, eh?"
Arthur sentì le guance andargli in fiamme. Una lingua ce l'aveva eccome, e glielo dimostrò, rivolgendo loro una bella smorfia. Ma quelli non sembrarono apprezzare.
"Ma chi ti credi di essere?!" fece il più grosso del gruppo, dandogli il primo spintone e facendolo ruzzolare in una pozzanghera.
Pieno di fango, Arthur non perse la dignità e si rialzò lentamente, ma gli altri non avevano finito: un'altra spinta di qua, un pizzicotto di là, Arthur si ritrovò di nuovo per terra, lercio eppure deciso a non far scorrere nemmeno una lacrima.
Quando gli altri ne ebbero abbastanza e che il biondino non era poi così divertente da torturare, finalmente girarono i tacchi e tornarono al villaggio, lasciando un Arthur inginocchiato nel pantano, sporco e gocciolante, ma dall'espressione sempre stoica.
Di nuovo si alzò, dolorante e lercio: fango e erba gli si erano appiccicati ai capelli ed ai vestiti, aveva il viso impiastricciato di una melma viscida e odiosamente puzzolente, e gli si erano staccati ben due bottoni dalla blusa che indossava. Sua madre lo avrebbe sculacciato di sicuro.
Tornò a sedersi ai piedi della quercia, silenzioso e tetro. Non aveva un ago con sè - se l'avesse avuto, avrebbe potuto ricucirli... certo, sua madre non avrebbe fatto molto caso alla presenza dei bottoni, vedendolo tornare a casa tutto pesto e lurido.
Una prima lacrima si fece strada sulla sua guancia, lasciando un solco di pelle rosata mentre, scendendo, scavava nello sporco.
C'era un ruscello, vicino alla radura, poteva provare a darsi una ripulita lì...
Inghiottendo a vuoto per trattenere le lacrime, si avviò verso l'acqua. Sì, si sarebbe ripulito e, sperava, le botte non gli avrebbero lasciato troppi lividi... poteva mentire dicendo che era scivolato sul selciato della piazza, poteva inventarsi che c'era una pozza e che ci era finito dentro... ma temeva che sua madre si sarebbe arrabbiata comunque.
Sua madre si arrabbiava sempre, quando Arthur tornava a casa pesto. Diceva che non poteva continuare a farsi male così, che era un pasticcione, che doveva crescere e fare attenzione.
Quando Arthur le aveva raccontato che erano stati i suoi presunti amici di giochi, a conciarlo così, la madre gli aveva risposto che doveva reagire, allora, che doveva smetterla di fare lo zimbello del gruppo. Doveva stare con la testa sulle spalle, Arthur, e crescere. Che se avesse continuato a credere agli spiritelli alle fate, non c'era da sorprendersi che gli altri lo prendessero in giro e lo maltrattassero.
E allora era ovvio che Arthur continuava a scappare nel bosco: era il suo unico rifugio. Lì sì che era al sicuro, contrariamente a quel che credevano i suoi. Nessuna delle volpi, o dei caprioli, o degli scoiattoli gli aveva mai torto un capello.
I ragazzi del villaggio, invece, beh... finiva sempre così, con loro.
Arthur era sempre stato la loro vittima preferita, negli ultimi anni: quando erano più piccoli, con alcuni di loro era stato perfino amico; credevano tutti nelle fate e negli spiriti, da piccoli. Poi era arrivato il momento in cui avevano dovuto crescere, e le fate avevano dovuto andarsene.
Arthur tirò su col naso, in un moto di stizza, mentre avanzava a fatica tra le radici del sottobosco.
Una cosa reale non poteva semplicemente cessare di esistere quando qualcuno decideva di negarne l'esistenza. Specialmente, non gli esseri magici, Arthur ne era convinto. E allora correva nel bosco, perché voleva assicurarsi che i suoi abitanti esistessero ancora, che tutti quei: "gli spiriti non esistono, Arthur!" non li avessero fatti dissolvere nel nulla.
Si sarebbe sentito molto in colpa, se fosse successo.
Arrivato al ruscello, si inginocchiò esausto sulla sua riva.
Il riflesso di sé che gli restituì l'acqua non era certo dei più generosi: il biondo cenere dei capelli era praticamente svanito sotto lo scuro del fango ormai rappreso, e tutto il suo viso era un alternarsi di marrone e verde, con lunghi solchi bianchi dove a pulirlo ci avevano pensato le lacrime.
Ma le fate sono vere, si disse. Lo sapeva, lo sentiva che esistevano - come avrebbero fatto i fiori ad essere così belli, se non fossero stati colorati dalle fate? Come avrebbero fatto a spuntare le ghiande, se non ci fossero stati gli spiriti dell'autunno a prendersi cura degli alberi? Chi avrebbe pettinato le folte code degli scoiattoli, se non le mani gentili della ninfe della selva?
Vero, non aveva mai fatto amicizia con nessuno di questi esseri, né era mai riuscito a parlarci.
...non ne aveva mai nemmeno visto uno da vicino, se doveva essere onesto con se stesso, ma questo non voleva dire che non fossero reali! Del resto, tutti dicevano di avere degli amici, eppure lui non ne aveva nemmeno uno, ma questo non voleva affatto dire che l'amicizia non esistesse, o no?
Guardò nuovamente negli occhi il suo riflesso, e scoppiò a piangere a dirotto.
Nessuna fata venne a consolarlo, però, e, tra i singhiozzi, si chiese se forse non fosse vero che non erano altro che una sua fantasia, storie per bambini, leggende buone solo ad essere raccontate davanti al fuoco nelle notti di inverno... non erano niente di tangibile, niente che ti proteggesse dai bulli del villaggio, niente che ti aiutasse a portare a casa il pane per la cena. Niente che ti aiutasse a crescere, in definitiva.
Sempre singhiozzando, immerse nell'acqua le mani e si lavò il viso, ripulendosi i piccoli tagli che si era procurato cadendo.
Mentre era intento in quella delicata operazione, la sua attenzione venne attirata da un altro riflesso sulla superficie del ruscello: qualcosa che si muoveva sull'altra sponda. Alzò gli occhi per vedere un piccolo branco di caprioli camminare eleganti tra i tronchi degli alberi, gli occhi neri che si guardavano attorno cauti.
Arthur non mosse un muscolo, e gli animali non sembrarono prestargli attenzione.
Improvvisamente, poi, dal folto del sottobosco comparve lui.
Arthur lo aveva scambiato per un capriolo bianco, all'inizio, ma dopo una seconda occhiata il ragazzino capì che non si trattava di un capriolo. Era un puledro, un puledro dal manto candido.
La criniera era folta, dorata, e sulla fronte si divideva in due, cadendo in piccoli boccoli ai lati di... Arthur boccheggiò nel riconoscerlo, il corpo bloccato sul posto e completamente incapace di muoversi.
Un unicorno?
Il quadrupede avanzava incerto sulle tracce del branco di caprioli, fiutando l'aria e muovendo nervosamente la coda. Gli altri animali, dal canto loro, non sembravano curarsi di lui – almeno fino a che un giovane maschio, il palco di corna nuovo in bella mostra, non si fece strada in mezzo ai compagni, andando incontro all'unicorno con aria baldanzosa.
L'unicorno si fece avanti con fare amichevole, speranzoso quasi, nitrendo piano, la testa leggermente voltata da un lato. Ma il capriolo non aveva intenzioni altrettanto cordiali. A pochi metri dall'unicorno, abbassò il capo e caricò, le corna ben tese di fronte a lui.
L'animale bianco, resosi conto dell'ostilità dell'altro, scalpitò e scappò al galoppo. Il capriolo bellicoso non lo inseguì, ma si voltò verso gli altri con fare trionfante: Arthur, anche se non poteva capire il linguaggio dei caprioli, avrebbe giurato che il resto del branco si era messo a ridere.
Non perse tempo, il ragazzino, e nonostante fosse ancora mezzo lercio e dolorante, si mise a correre sulle tracce dell'unicorno.
Era reale, continuava a ripetersi, era decisamente reale! Ed era... beh, solo, come lui, pensava Arthur mentre, nella foga, lasciava che gli arbusti ed i rami del sottobosco gli graffiassero le mani e gli arpionassero i vestiti.
Per fortuna, non dovette penare a lungo per trovarlo: l'unicorno si era fermato in un piccolo spiazzo, la coda che si agitava nervosamente da un fianco all'altro, le orecchie tese verso il bosco. Quando dai tronchi emerse il piccolo umano, l'animale ricominciò a scappare, salvo poi fermarsi a vedere il bipede rotolare a terra, inciampando in una radice ed emettendo una serie di suoni strani.
Dopo il tonfo sordo che aveva fatto atterrando, il buffo essere coperto di fango non si era più mosso, e l'unicorno bianco era tornato indietro per annusarlo con cautela.
“Non scappare.” implorò dopo un po' l'ammasso di terra e stoffa che era sbucato dal bosco.
L'unicorno sbuffò, scrollando la criniera, e si mise pacificamente a brucargli via dai capelli i ciuffi di erba che vi erano rimasti impigliati.
Pochi minuti dopo, erano accovacciati entrambi in riva al ruscello.
L'unicorno aveva bevuto a sazietà, mentre Arthur stava inutilmente tentando di lavare i pantaloni.
“Prendono in giro anche te, vero?” chiacchierava intanto il biondino “Ma non devi dare ascolto ai caprioli, sai, sono buoni solo di masticare corteccia, quelli. Come quegli idioti del villaggio: sanno solo fare a botte e atteggiarsi a grandi uomini. Tutti scemi, sono. Ma a me non importa, eh, non li voglio mica come amici, ci mancherebbe altro! Voglio solo essere lasciato in pace... che smettano di prendermi in giro, ecco. Chi ha bisogno di amici, comunque!” brontolò, mettendo i pantaloni ad asciugare su una roccia. Il sole di mezzogiorno era tiepido e si stava bene.
L'unicorno si era voltato a guardarlo, incuriosito.
“Beh...” Arthur arrossì, voltandosi. “non mi dispiacerebbe diventare amico tuo, però.” ammise in un borbottio appena udibile.
L'unicorno mosse le orecchie, sbuffando, e gli diede una nasata sulla spalla.
“Te lo posso dare un nome?” si azzardò Arthur. L'unicorno sbuffò di nuovo, e il ragazzino lo interpretò come un sì.
“Charlie. Ti chiamerai Charlie. Ti piace, Charlie?” chiese. In segno di apprezzamento, l'unicorno gli diede un'altra nasata, così forte che stavolta per poco Arthur non cadde nel ruscello.
Fu così che diventarono effettivamente amici.
La vita di Arthur, da quel giorno in poi, subì un radicale cambiamento. L'estate che li aspettava sarebbe stata la più spensierata della sua vita: le giornate scorrevano lente e calde, mentre i due si dedicavano all'esplorazione degli angoli più remoti della foresta.
In compagnia dell'unicorno, Arthur riuscì finalmente a vedere le fate: gli spiriti accorrevano ai nitriti di Charlie e gli volavano incontro, scivolando lungo le onde della sua criniera, saltandogli in groppa. Erano un po' diffidenti riguardo al piccolo umano, inizialmente, ma presto vi fecero l'abitudine, divertendosi a scompigliargli i capelli ed a tiragli le orecchie.
Arthur ebbe sempre l'impressione che lo prendessero un po' in giro ma, per una volta, non se ne dispiaceva affatto.
Venne l'autunno, e Arthur raccoglieva le mele selvatiche dai rami più alti e le lanciava a Charlie, e poi venne l'inverno, e Charlie correva leggiadro sulla neve, candido come lei, mentre Arthur gli arrancava dietro a fatica.
Una volta, successe di nuovo che i ragazzi del villaggio lo seguissero su per il bosco con l'intenzione di dargli una bella lezione – si era fatto sempre più sbruffone, quell'Arthur, negli ultimi tempi, e la cosa non andava a genio a nessuno di loro. Peccato che, quando lo trovarono, il ragazzo fosse in compagnia. Charlie abbassò elegantemente il capo, il corno in posizione di combattimento, e li caricò.
Quando al villaggio un paio di loro osarono raccontare di essere stati attaccati da un unicorno malvagio, il resto dei ragazzi si fecero beffe di loro, schernendoli e dicendo che era patetico, vederli raccontare tali storie per giustificarsi di essere stati battuti da Arthur.
Passò un anno dal loro primo incontro, ne passarono due.
Charlie ora lo portava in groppa senza sforzi, e Arthur lo cavalcava naturalmente, senza sella, come se vi fosse abituato da sempre.
Nell'estate del terzo anno dal loro incontro, Arthur era abbastanza grande per lavorare i campi, ma nonostante le sue escursioni giornaliere gli mancassero, quando riusciva a sgattaiolare nel bosco non lo faceva mai senza una pannocchia o una mela per il suo amico bianco.
Passarono cinque, dieci, vent'anni.
Arthur aveva trovato moglie, aveva avuto dei bambini. Li aveva portati con sé nel bosco, a volte, ma Charlie non si era fatto vedere.
Era strano, perché si faceva sempre vedere, quando Arthur veniva nel bosco da solo. Chissà, forse che i suoi figli erano nati già grandi?
In ogni caso, grandi lo diventarono e, col passare degli anni, se ne andarono di casa. Ormai Arthur si era fatto troppo vecchio per lavorare, e, per quanto avesse voluto finalmente dedicare tutto il tempo che gli restava a passeggiare nei suoi amati boschi, si era fatto troppo vecchio anche per quello. Quando arrancava in salita verso la radura della quercia, appoggiando tutto il peso del suo corpo anziano sul bastone di nocciolo che si era intagliato anni prima, sentiva l'età zavorrarlo a terra e trascinarlo indietro.
Finalmente – ma era una lotta più dura ogni giorno che passava – arrivava a sedersi, esausto, su quello che negli anni era diventato il suo trono di radici.
Lì lo raggiungeva Charlie.
Anche l'unicorno, a modo suo, mostrava il segno degli anni che passavano. Bianco lo era già, non come Arthur che lo era diventato con il tempo, ma la sua criniera e la sua coda si erano fatte meno folte, i crini più deboli, spezzati. Gli occhi neri erano più infossati ed avevano perso un po' della loro brillantezza.
Tutte le volte, però, arrivava e strofinava il suo muso contro la spalla di Arthur con la stessa affezionata tenerezza, e l'uomo tirava fuori una mela avvizzita, morbida, e la offriva all'unicorno in piccoli pezzetti.
Quell'ultimo giorno, il cielo mattutino era scuro, le nuvole grigie che promettevano una pioggia intensa e fredda. Il bosco era silenzioso – gli animali sentivano l'arrivo del temporale e si erano nascosti. La moglie di Arthur aveva insistito perché rimanesse a casa, quel giorno, ma lui non ne aveva voluto sapere. Era uscito di casa e si era diretto verso il bosco, attento a non farsi vedere, come da sua vecchia abitudine. La presenza da cui voleva scappare, tuttavia, l'aveva visto uscire comunque, e il vecchio lo sapeva bene.
Come sempre, diede la mela a Charlie. L'unicorno la masticò lentamente, sbuffando appena. Non aveva più denti buoni come quelli di una volta.
Il vento faceva stormire le fronde in maniera sinistra, e Arthur quasi si aspettava di sentirli arrivare gridando su per il sentiero, i monelli del villaggio che volevano prendersela con lui.
Ma no, chi lo stava inseguendo ora la maggior parte delle volte arrivava senza fare rumore, lo sapeva.
Arthur sospirò. Tra i lunghi steli d'erba estiva, vedeva comparire a tratti qualche minuscola ninfa della pioggia, che sporgeva il naso all'insù, annusando l'aria in maniera curiosa, ridendo deliziata quando le prime gocce d'acqua iniziarono a cadere dal cielo.
Il vecchio accarezzò la schiena di Charlie, lisciando sotto le dita callose il pelo ora un po' rado e stopposo.
“Ce la facciamo una cavalcata, Charlie?” sussurrò Arthur nell'orecchio dell'unicorno.
L'amico nitrì piano, scrollando la criniera. Era tanto che non cavalcavano, e forse l'animale non ce l'avrebbe fatta, a reggerlo – ma Arthur era leggero, ormai.
Charlie si inginocchiò in avanti per facilitargli la salita. Nonostante questo, Arthur ci mise un po' a sistemarglisi in groppa. Sbuffando, l'unicorno si rimise in piedi.
Arthur era davvero una piuma, sulla sua schiena, ed il bianco unicorno, stranamente, non sentiva la fatica. Fatti i primi passi nella radura, all'improvviso entrambi sentirono il bisogno di galoppare, di lasciare che la pioggia gelida gli sferzasse negli occhi, di lanciarsi nel fitto dei rami alla cieca, consapevoli solo della corsa e dei loro respiri affannati, come tante volte avevano fatto negli anni passati.
Valeva senz'altro farlo per un'ultima volta, pensarono, mentre sparivano al galoppo nell'intrico del bosco.
La pioggia cancellò via le tracce degli zoccoli dalla radura, e quando il temporale fu passato, di Arthur non rimase che il vecchio bastone di nocciolo, eretto a mo' di lapide tra le radici della quercia.
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Arthur (Inghilterra), Charlie l'unicorno
Rating: giallo
Conteggio parole: 3109 (fdp)
Genere: fantasy, triste
Avvertenze: AU, implied morte del protagonista
Riassunto: Una cosa reale non poteva semplicemente cessare di esistere quando qualcuno decideva di negarne l'esistenza. Specialmente, non gli esseri magici, Arthur ne era convinto. E allora correva nel bosco, perché voleva assicurarsi che i suoi abitanti esistessero ancora, che tutti quei: "gli spiriti non esistono, Arthur!" non li avessero fatti dissolvere nel nulla.
Si sarebbe sentito molto in colpa, se fosse successo.
Note: partecipa alla sesta settimana del COWT2 @
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Hint: non ce la faccio più xD non vedo l'ora che il COWT finisca.
Arthur si era incamminato a piedi scalzi nella foresta, come era solito fare, quando le giornate si allungavano e le lunghe piogge invernali lasciavano spazio ai raggi di sole che penetravano nel fogliame tenero e appena nato degli alberi.
L'aria non era calda, quel pomeriggio, ma il tocco del sole era tiepido sulla sua pelle, mentre con i piedi nudi affondava nel terriccio umido del sottobosco. Aveva piovuto, nella notte, e le piante ancora gocciolavano d'acqua. Il ragazzino si divertiva ad osservare i calici delle foglie e dei primi fiori che ospitavano minuscoli laghi trasparenti. Ne spinse alcuni con le dita, provocando la caduta di piccole cascate sugli steli sottostanti, che si piegarono docili. Piccoli esseri alati uscirono svolazzando dal loro riparo di erbe, ed Arthur era abbastanza certo che alcuni di loro - dalle ali lunghe e traslucide nella luce pura del mattino - gli avessero rivolto sguardi arrabbiati e parole poco gentili. Chi era mai quel piccolo umano impertinente che veniva a disturbarli nei loro nascondigli?
Ma gli esseri si inabissarono nel verde circostante senza che Arthur potesse seguirli.
In realtà, Arthur sapeva che non avrebbe dovuto disturbare la natura. Questo era uno dei motivi per cui amava camminare scalzo nelle radure: non voleva calpestare qualche fiore, che poteva essere il favorito di qualche fatina dei boschi, o una delle fatine stesse, se avesse deciso di riposarsi in mezzo all'erba. Sapeva che, per quanto potessero apparire aggraziati e gentili, i silvani sapevano essere molto crudeli e vendicativi.
Inoltre, sua madre era già abbastanza apprensiva a vederlo allontanarsi da casa: non le piaceva affatto che lui passasse il suo tempo vagabondando da solo nel bosco invece che giocare con gli altri bambini del paese, se lui fosse tornato ferito o addirittura maledetto da qualche spirito degli alberi, questo avrebbe significato un imperituro divieto ad allontanarsi dal villaggio, ed Arthur temeva l'idea molto di più dei possibili pericoli del bosco.
Proseguì sul sentiero appena tracciato che lo guidava attraverso il bosco. Era così vivo ed allegro, il bosco, pensava Arthur, le fronde agitate dai cinguettii degli uccellini e dai salti degli scoiattoli – con così tanta vitalità attorno, come poteva fargli paura?
Già, non erano certo i rumori della natura che Arthur temeva, pensò mentre si fermava a riposare tra le radici di una grane quercia. Questi erano rumori confortevoli, famigliari, accoglienti. Gli faceva molto più paura il silenzio, piuttosto...
Come se, pensandolo, l'avesse chiamato a sè, eccolo, il silenzio.
Gli uccellini smisero per un attimo di cinguettare, ed una coppia di scoiattoli che aveva giocato a rincorrersi tra i rami bassi di un faggio si affrettò a scomparire nel fogliame. Durò poco, però, perché venne immediatamente rimpiazzato da schiamazzi fin troppo famigliari.
Erano i ragazzi del villaggio, Arthur lo capì subito.
Ma che volevano? Era raro che lo seguissero nel bosco. Di solito, lo facevano solo se avevano già avuto modo di vederlo per le vie del villaggio e non si erano accontentati di torturarlo lì... ma quella mattina Arthur era convinto di essere sgattaiolato fuori di casa senza essere notato da nessuno.
Evidentemente, si era sbagliato.
Spaventato, si alzò in fretta dalla sua comoda poltrona tra le radici dell'albero e fece per darsi alla fuga, ma gli altri furono nella radura prima che lui potesse darsela a gambe.
"Arthur, stupido Arthur! Sei venuto a parlare con i tuoi amici gnomi?!" lo canzonarono, raggiungendolo e strattonandolo per il cappuccio del mantello.
Il ragazzino biondo non rispose, stoico. Non importava quello che avrebbe detto, tanto: ormai lo avevano circondato e sapeva come sarebbe andata a finire, quando iniziavano.
"Non parli? O forse un unicorno ti ha mangiato la lingua, eh?"
Arthur sentì le guance andargli in fiamme. Una lingua ce l'aveva eccome, e glielo dimostrò, rivolgendo loro una bella smorfia. Ma quelli non sembrarono apprezzare.
"Ma chi ti credi di essere?!" fece il più grosso del gruppo, dandogli il primo spintone e facendolo ruzzolare in una pozzanghera.
Pieno di fango, Arthur non perse la dignità e si rialzò lentamente, ma gli altri non avevano finito: un'altra spinta di qua, un pizzicotto di là, Arthur si ritrovò di nuovo per terra, lercio eppure deciso a non far scorrere nemmeno una lacrima.
Quando gli altri ne ebbero abbastanza e che il biondino non era poi così divertente da torturare, finalmente girarono i tacchi e tornarono al villaggio, lasciando un Arthur inginocchiato nel pantano, sporco e gocciolante, ma dall'espressione sempre stoica.
Di nuovo si alzò, dolorante e lercio: fango e erba gli si erano appiccicati ai capelli ed ai vestiti, aveva il viso impiastricciato di una melma viscida e odiosamente puzzolente, e gli si erano staccati ben due bottoni dalla blusa che indossava. Sua madre lo avrebbe sculacciato di sicuro.
Tornò a sedersi ai piedi della quercia, silenzioso e tetro. Non aveva un ago con sè - se l'avesse avuto, avrebbe potuto ricucirli... certo, sua madre non avrebbe fatto molto caso alla presenza dei bottoni, vedendolo tornare a casa tutto pesto e lurido.
Una prima lacrima si fece strada sulla sua guancia, lasciando un solco di pelle rosata mentre, scendendo, scavava nello sporco.
C'era un ruscello, vicino alla radura, poteva provare a darsi una ripulita lì...
Inghiottendo a vuoto per trattenere le lacrime, si avviò verso l'acqua. Sì, si sarebbe ripulito e, sperava, le botte non gli avrebbero lasciato troppi lividi... poteva mentire dicendo che era scivolato sul selciato della piazza, poteva inventarsi che c'era una pozza e che ci era finito dentro... ma temeva che sua madre si sarebbe arrabbiata comunque.
Sua madre si arrabbiava sempre, quando Arthur tornava a casa pesto. Diceva che non poteva continuare a farsi male così, che era un pasticcione, che doveva crescere e fare attenzione.
Quando Arthur le aveva raccontato che erano stati i suoi presunti amici di giochi, a conciarlo così, la madre gli aveva risposto che doveva reagire, allora, che doveva smetterla di fare lo zimbello del gruppo. Doveva stare con la testa sulle spalle, Arthur, e crescere. Che se avesse continuato a credere agli spiritelli alle fate, non c'era da sorprendersi che gli altri lo prendessero in giro e lo maltrattassero.
E allora era ovvio che Arthur continuava a scappare nel bosco: era il suo unico rifugio. Lì sì che era al sicuro, contrariamente a quel che credevano i suoi. Nessuna delle volpi, o dei caprioli, o degli scoiattoli gli aveva mai torto un capello.
I ragazzi del villaggio, invece, beh... finiva sempre così, con loro.
Arthur era sempre stato la loro vittima preferita, negli ultimi anni: quando erano più piccoli, con alcuni di loro era stato perfino amico; credevano tutti nelle fate e negli spiriti, da piccoli. Poi era arrivato il momento in cui avevano dovuto crescere, e le fate avevano dovuto andarsene.
Arthur tirò su col naso, in un moto di stizza, mentre avanzava a fatica tra le radici del sottobosco.
Una cosa reale non poteva semplicemente cessare di esistere quando qualcuno decideva di negarne l'esistenza. Specialmente, non gli esseri magici, Arthur ne era convinto. E allora correva nel bosco, perché voleva assicurarsi che i suoi abitanti esistessero ancora, che tutti quei: "gli spiriti non esistono, Arthur!" non li avessero fatti dissolvere nel nulla.
Si sarebbe sentito molto in colpa, se fosse successo.
Arrivato al ruscello, si inginocchiò esausto sulla sua riva.
Il riflesso di sé che gli restituì l'acqua non era certo dei più generosi: il biondo cenere dei capelli era praticamente svanito sotto lo scuro del fango ormai rappreso, e tutto il suo viso era un alternarsi di marrone e verde, con lunghi solchi bianchi dove a pulirlo ci avevano pensato le lacrime.
Ma le fate sono vere, si disse. Lo sapeva, lo sentiva che esistevano - come avrebbero fatto i fiori ad essere così belli, se non fossero stati colorati dalle fate? Come avrebbero fatto a spuntare le ghiande, se non ci fossero stati gli spiriti dell'autunno a prendersi cura degli alberi? Chi avrebbe pettinato le folte code degli scoiattoli, se non le mani gentili della ninfe della selva?
Vero, non aveva mai fatto amicizia con nessuno di questi esseri, né era mai riuscito a parlarci.
...non ne aveva mai nemmeno visto uno da vicino, se doveva essere onesto con se stesso, ma questo non voleva dire che non fossero reali! Del resto, tutti dicevano di avere degli amici, eppure lui non ne aveva nemmeno uno, ma questo non voleva affatto dire che l'amicizia non esistesse, o no?
Guardò nuovamente negli occhi il suo riflesso, e scoppiò a piangere a dirotto.
Nessuna fata venne a consolarlo, però, e, tra i singhiozzi, si chiese se forse non fosse vero che non erano altro che una sua fantasia, storie per bambini, leggende buone solo ad essere raccontate davanti al fuoco nelle notti di inverno... non erano niente di tangibile, niente che ti proteggesse dai bulli del villaggio, niente che ti aiutasse a portare a casa il pane per la cena. Niente che ti aiutasse a crescere, in definitiva.
Sempre singhiozzando, immerse nell'acqua le mani e si lavò il viso, ripulendosi i piccoli tagli che si era procurato cadendo.
Mentre era intento in quella delicata operazione, la sua attenzione venne attirata da un altro riflesso sulla superficie del ruscello: qualcosa che si muoveva sull'altra sponda. Alzò gli occhi per vedere un piccolo branco di caprioli camminare eleganti tra i tronchi degli alberi, gli occhi neri che si guardavano attorno cauti.
Arthur non mosse un muscolo, e gli animali non sembrarono prestargli attenzione.
Improvvisamente, poi, dal folto del sottobosco comparve lui.
Arthur lo aveva scambiato per un capriolo bianco, all'inizio, ma dopo una seconda occhiata il ragazzino capì che non si trattava di un capriolo. Era un puledro, un puledro dal manto candido.
La criniera era folta, dorata, e sulla fronte si divideva in due, cadendo in piccoli boccoli ai lati di... Arthur boccheggiò nel riconoscerlo, il corpo bloccato sul posto e completamente incapace di muoversi.
Un unicorno?
Il quadrupede avanzava incerto sulle tracce del branco di caprioli, fiutando l'aria e muovendo nervosamente la coda. Gli altri animali, dal canto loro, non sembravano curarsi di lui – almeno fino a che un giovane maschio, il palco di corna nuovo in bella mostra, non si fece strada in mezzo ai compagni, andando incontro all'unicorno con aria baldanzosa.
L'unicorno si fece avanti con fare amichevole, speranzoso quasi, nitrendo piano, la testa leggermente voltata da un lato. Ma il capriolo non aveva intenzioni altrettanto cordiali. A pochi metri dall'unicorno, abbassò il capo e caricò, le corna ben tese di fronte a lui.
L'animale bianco, resosi conto dell'ostilità dell'altro, scalpitò e scappò al galoppo. Il capriolo bellicoso non lo inseguì, ma si voltò verso gli altri con fare trionfante: Arthur, anche se non poteva capire il linguaggio dei caprioli, avrebbe giurato che il resto del branco si era messo a ridere.
Non perse tempo, il ragazzino, e nonostante fosse ancora mezzo lercio e dolorante, si mise a correre sulle tracce dell'unicorno.
Era reale, continuava a ripetersi, era decisamente reale! Ed era... beh, solo, come lui, pensava Arthur mentre, nella foga, lasciava che gli arbusti ed i rami del sottobosco gli graffiassero le mani e gli arpionassero i vestiti.
Per fortuna, non dovette penare a lungo per trovarlo: l'unicorno si era fermato in un piccolo spiazzo, la coda che si agitava nervosamente da un fianco all'altro, le orecchie tese verso il bosco. Quando dai tronchi emerse il piccolo umano, l'animale ricominciò a scappare, salvo poi fermarsi a vedere il bipede rotolare a terra, inciampando in una radice ed emettendo una serie di suoni strani.
Dopo il tonfo sordo che aveva fatto atterrando, il buffo essere coperto di fango non si era più mosso, e l'unicorno bianco era tornato indietro per annusarlo con cautela.
“Non scappare.” implorò dopo un po' l'ammasso di terra e stoffa che era sbucato dal bosco.
L'unicorno sbuffò, scrollando la criniera, e si mise pacificamente a brucargli via dai capelli i ciuffi di erba che vi erano rimasti impigliati.
Pochi minuti dopo, erano accovacciati entrambi in riva al ruscello.
L'unicorno aveva bevuto a sazietà, mentre Arthur stava inutilmente tentando di lavare i pantaloni.
“Prendono in giro anche te, vero?” chiacchierava intanto il biondino “Ma non devi dare ascolto ai caprioli, sai, sono buoni solo di masticare corteccia, quelli. Come quegli idioti del villaggio: sanno solo fare a botte e atteggiarsi a grandi uomini. Tutti scemi, sono. Ma a me non importa, eh, non li voglio mica come amici, ci mancherebbe altro! Voglio solo essere lasciato in pace... che smettano di prendermi in giro, ecco. Chi ha bisogno di amici, comunque!” brontolò, mettendo i pantaloni ad asciugare su una roccia. Il sole di mezzogiorno era tiepido e si stava bene.
L'unicorno si era voltato a guardarlo, incuriosito.
“Beh...” Arthur arrossì, voltandosi. “non mi dispiacerebbe diventare amico tuo, però.” ammise in un borbottio appena udibile.
L'unicorno mosse le orecchie, sbuffando, e gli diede una nasata sulla spalla.
“Te lo posso dare un nome?” si azzardò Arthur. L'unicorno sbuffò di nuovo, e il ragazzino lo interpretò come un sì.
“Charlie. Ti chiamerai Charlie. Ti piace, Charlie?” chiese. In segno di apprezzamento, l'unicorno gli diede un'altra nasata, così forte che stavolta per poco Arthur non cadde nel ruscello.
Fu così che diventarono effettivamente amici.
La vita di Arthur, da quel giorno in poi, subì un radicale cambiamento. L'estate che li aspettava sarebbe stata la più spensierata della sua vita: le giornate scorrevano lente e calde, mentre i due si dedicavano all'esplorazione degli angoli più remoti della foresta.
In compagnia dell'unicorno, Arthur riuscì finalmente a vedere le fate: gli spiriti accorrevano ai nitriti di Charlie e gli volavano incontro, scivolando lungo le onde della sua criniera, saltandogli in groppa. Erano un po' diffidenti riguardo al piccolo umano, inizialmente, ma presto vi fecero l'abitudine, divertendosi a scompigliargli i capelli ed a tiragli le orecchie.
Arthur ebbe sempre l'impressione che lo prendessero un po' in giro ma, per una volta, non se ne dispiaceva affatto.
Venne l'autunno, e Arthur raccoglieva le mele selvatiche dai rami più alti e le lanciava a Charlie, e poi venne l'inverno, e Charlie correva leggiadro sulla neve, candido come lei, mentre Arthur gli arrancava dietro a fatica.
Una volta, successe di nuovo che i ragazzi del villaggio lo seguissero su per il bosco con l'intenzione di dargli una bella lezione – si era fatto sempre più sbruffone, quell'Arthur, negli ultimi tempi, e la cosa non andava a genio a nessuno di loro. Peccato che, quando lo trovarono, il ragazzo fosse in compagnia. Charlie abbassò elegantemente il capo, il corno in posizione di combattimento, e li caricò.
Quando al villaggio un paio di loro osarono raccontare di essere stati attaccati da un unicorno malvagio, il resto dei ragazzi si fecero beffe di loro, schernendoli e dicendo che era patetico, vederli raccontare tali storie per giustificarsi di essere stati battuti da Arthur.
Passò un anno dal loro primo incontro, ne passarono due.
Charlie ora lo portava in groppa senza sforzi, e Arthur lo cavalcava naturalmente, senza sella, come se vi fosse abituato da sempre.
Nell'estate del terzo anno dal loro incontro, Arthur era abbastanza grande per lavorare i campi, ma nonostante le sue escursioni giornaliere gli mancassero, quando riusciva a sgattaiolare nel bosco non lo faceva mai senza una pannocchia o una mela per il suo amico bianco.
Passarono cinque, dieci, vent'anni.
Arthur aveva trovato moglie, aveva avuto dei bambini. Li aveva portati con sé nel bosco, a volte, ma Charlie non si era fatto vedere.
Era strano, perché si faceva sempre vedere, quando Arthur veniva nel bosco da solo. Chissà, forse che i suoi figli erano nati già grandi?
In ogni caso, grandi lo diventarono e, col passare degli anni, se ne andarono di casa. Ormai Arthur si era fatto troppo vecchio per lavorare, e, per quanto avesse voluto finalmente dedicare tutto il tempo che gli restava a passeggiare nei suoi amati boschi, si era fatto troppo vecchio anche per quello. Quando arrancava in salita verso la radura della quercia, appoggiando tutto il peso del suo corpo anziano sul bastone di nocciolo che si era intagliato anni prima, sentiva l'età zavorrarlo a terra e trascinarlo indietro.
Finalmente – ma era una lotta più dura ogni giorno che passava – arrivava a sedersi, esausto, su quello che negli anni era diventato il suo trono di radici.
Lì lo raggiungeva Charlie.
Anche l'unicorno, a modo suo, mostrava il segno degli anni che passavano. Bianco lo era già, non come Arthur che lo era diventato con il tempo, ma la sua criniera e la sua coda si erano fatte meno folte, i crini più deboli, spezzati. Gli occhi neri erano più infossati ed avevano perso un po' della loro brillantezza.
Tutte le volte, però, arrivava e strofinava il suo muso contro la spalla di Arthur con la stessa affezionata tenerezza, e l'uomo tirava fuori una mela avvizzita, morbida, e la offriva all'unicorno in piccoli pezzetti.
Quell'ultimo giorno, il cielo mattutino era scuro, le nuvole grigie che promettevano una pioggia intensa e fredda. Il bosco era silenzioso – gli animali sentivano l'arrivo del temporale e si erano nascosti. La moglie di Arthur aveva insistito perché rimanesse a casa, quel giorno, ma lui non ne aveva voluto sapere. Era uscito di casa e si era diretto verso il bosco, attento a non farsi vedere, come da sua vecchia abitudine. La presenza da cui voleva scappare, tuttavia, l'aveva visto uscire comunque, e il vecchio lo sapeva bene.
Come sempre, diede la mela a Charlie. L'unicorno la masticò lentamente, sbuffando appena. Non aveva più denti buoni come quelli di una volta.
Il vento faceva stormire le fronde in maniera sinistra, e Arthur quasi si aspettava di sentirli arrivare gridando su per il sentiero, i monelli del villaggio che volevano prendersela con lui.
Ma no, chi lo stava inseguendo ora la maggior parte delle volte arrivava senza fare rumore, lo sapeva.
Arthur sospirò. Tra i lunghi steli d'erba estiva, vedeva comparire a tratti qualche minuscola ninfa della pioggia, che sporgeva il naso all'insù, annusando l'aria in maniera curiosa, ridendo deliziata quando le prime gocce d'acqua iniziarono a cadere dal cielo.
Il vecchio accarezzò la schiena di Charlie, lisciando sotto le dita callose il pelo ora un po' rado e stopposo.
“Ce la facciamo una cavalcata, Charlie?” sussurrò Arthur nell'orecchio dell'unicorno.
L'amico nitrì piano, scrollando la criniera. Era tanto che non cavalcavano, e forse l'animale non ce l'avrebbe fatta, a reggerlo – ma Arthur era leggero, ormai.
Charlie si inginocchiò in avanti per facilitargli la salita. Nonostante questo, Arthur ci mise un po' a sistemarglisi in groppa. Sbuffando, l'unicorno si rimise in piedi.
Arthur era davvero una piuma, sulla sua schiena, ed il bianco unicorno, stranamente, non sentiva la fatica. Fatti i primi passi nella radura, all'improvviso entrambi sentirono il bisogno di galoppare, di lasciare che la pioggia gelida gli sferzasse negli occhi, di lanciarsi nel fitto dei rami alla cieca, consapevoli solo della corsa e dei loro respiri affannati, come tante volte avevano fatto negli anni passati.
Valeva senz'altro farlo per un'ultima volta, pensarono, mentre sparivano al galoppo nell'intrico del bosco.
La pioggia cancellò via le tracce degli zoccoli dalla radura, e quando il temporale fu passato, di Arthur non rimase che il vecchio bastone di nocciolo, eretto a mo' di lapide tra le radici della quercia.