lontano_lontano: (Fay coat)
[personal profile] lontano_lontano
Titolo: Demonheart - III. Age Of Mystic Ice (I parte)
Parte: 4/12
Fandom: Tsubasa reservoir Chronicle
Rating: giallo
Genere: drammatico, romantico, fantasy/fantascienza, angst, song-fic
Personaggi: Kurogane, Fay, Gantai (benda-man XD), Kuroparents.. eventuali aggiunte in itinere
Summary: in uno degli innumerevoli pianeti dell'universo, vive la gente del pacifico regno di Suwa, dove un'antica leggenda parla di una minaccia proveniente dalle stelle... nel frattempo, ancora lontana tra le stelle, vola la Cometa Nera.. e io faccio ca****e a scrivere summaries.
Disclaimer: Tsubasa Reservoir Chronicle appartiene alle Clamp, Prophet of the Last Eclipse a Luca Turilli. Io cucio insieme i pezzi.
Note: vd. note all'introduzione
Commenti: shonen-ai, AU, angst, sangue e morte e catastrofi (NB: questa storia NON parla di alieni che attaccano il nostro pianeta Terra ù_ù)




Nota: leggere le lyrics comporta potenziali spoiler per quanto accade nel capitolo (soprattutto dal capitolo V in poi)


III.


THE AGE OF MYSTIC ICE





Ascoltatela qui!


She remembers only her wasted ship's name
the fallen giant Dark Comet S-10
nothing more can she recall than her mind's death
while the black spheres are now moving around

Sania will be her new name now adopted
word that means gift... golden gift of the gods
but her smile is lonely on this sad dark day
for even magic, the ice covers all

WHERE THE LEGEND HIDES THE TRUTH
AT THE CLASH OF SUN AND MOON
AND MOVED BY MAGNETIC FIELDS
COMES THE MYSTIC LAST ECLIPSE
IT WILL RIDE THE ZEPHYR PLAINS
IN THE EVIL COSMIC NAME
ALL THE NIGHTMARES WILL SOON RISE
IN THE AGE OF MYSTIC ICE...
MYSTIC ICE!






I tetti del palazzo reale di Suwa scintillavano, ancora lucidi di pioggia, mentre i nuvoloni neri che avevano portato l’acquazzone andavano svanendo all’orizzonte, scuri contro la luce del tramonto.

I passi del principe rimbombarono nel corridoio, mentre i suoi stivali lasciavano sul pavimento di pietra una serie di consunte orme di fango ed acqua. Quando varcò la soglia dell’arcata che conduceva al portico, due paia di occhi si fissarono su di lui, mentre i presenti lo accoglievano con un sorriso.
“Bentornato, figlio mio.” la madre di Kurogane aveva un volto pallido e grazioso, le labbra dipinte di un rosso tenue incurvate in un sorriso dolce.
“Hyuuuu, Kurochan!”
Kurogane aveva appena chinato la testa per rispondere al saluto della madre, che si voltò di scatto verso il biondo, irritato.
“E’ Kurogane, maledizione!” inveì contro di lui, avvicinandosi al tavolino basso dove i due erano seduti.
“Waah, ma lo sai che soffro di amnesia! Non dovresti prendertela così!”
Il principe gli lanciò un’occhiataccia “Sono tre settimane che sei qui, e non capisco perché la tua amnesia si manifesti solo quando si tratta del mio nome, visto che gli altri li ricordi alla perfezione!”
Tornò a voltarsi verso la madre, per salutarla, ma si accorse che stava ridendo esattamente come il biondo di fronte a lei.
Il principe inarcò un sopracciglio. Beh, che cos’era questa storia?
La donna sollevò su di lui i suoi grandi occhi scuri.
“E’ un sollievo vederti così allegro, figlio mio.” disse sorridendogli sinceramente.
“Allegro? E’ irritazione, madre, non allegria.” rispose lui. Il tono gli riuscì un po’ più seccato di quanto non avesse voluto, e si chinò a baciare la regina sulla guancia.
“Kuropin si contraddice… ti lamenti se storpio il tuo nome, ma nemmeno tu usi mai il mio.” Puntualizzò il biondo, divertito.
Kurogane sbuffò, senza replicare.


***


Da quando erano tornati alla capitale, il giovane sembrava essersi ripreso quasi completamente dallo shock subito nella valle, anche se non aveva recuperato la memoria.
Inoltre, dopo l’episodio del fiume, Kurogane si era ritrovato ad usare un maggiore tatto nei confronti dello straniero.
Si era accorto dell’espressione sconvolta e confusa sul viso dell’altro in quell’occasione, e, nonostante ciò gli avesse instillato maggiore curiosità e sospetto nei suoi confronti, si era anche ripromesso di essere più cauto nell’approcciarsi a lui, in futuro: a prenderlo di petto, non avrebbe ottenuto altro che farlo scappare.
Così, aveva aspettato il giorno seguente per tornare sull’argomento.

“Allora, ti è tornato in mente come ti chiami?” gli chiese il principe. Il suo sguardo sembrava pronto a perforare la pietra, come tutte le volte che parlava con lui.
Il biondo ebbe un attimo di esitazione, prima di rispondere.
Aveva dormito, quella notte, e nel buio del sonno aveva sentito delle voci. Non riusciva a ricordare che cosa dicessero, né sapeva a chi appartenessero. Non sarebbe nemmeno stato in grado di ricostruirne il tono, nella sua mente.
Ma aveva l’impressione che, ad un tratto, una voce imperiosa avesse chiamato il suo nome, e nel sogno aveva sentito l’esigenza impellente di rispondere, di raggiungere immediatamente chiunque lo stesse chiamando. Ma non era possibile, non aveva idea di dove fosse. Era solo, nel buio dei suoi sogni.
“No.” rispose alla fine.
Il guerriero lo osservò, tentando di decifrare l’espressione del suo volto. Quella che il giovane biondo lasciava trasparire, sotto il suo sorriso di scusa, era confusione.
In quel momento, Kurogane decise che l’altro gli stava nascondendo qualcosa. Non credeva stesse mentendo, non del tutto, o non consapevolmente. Ma quella non era la verità – non tutta, almeno.
Quest’improvvisa consapevolezza gli fece aggrottare le sopracciglia, e l’altro spalancò quei suoi occhi celesti, senza capire il perché di quell’espressione accigliata.
“E ti ricordi qualcosa di quello che è successo tre giorni fa nella valle?”
“La Cometa Nera è caduta.”
“Perché la chiami così?”
“Beh, perché è nera. E perché una cometa viaggia nel cielo, e a volte cade. Che sia caduta, l’ho capito per via del cratere.”
“Che sia caduta l’abbiamo capito tutti, vedendolo.” lo interruppe Kurogane.
“Già. Beh, se l’ho visto, allora non me lo ricordo.” commentò l’altro remissivo, dando segno di volere chiudere lì la conversazione.
Il principe non sembrava dello stesso avviso, ma un attimo prima che aprisse la bocca per parlare di nuovo, un soldato venne a chiamarlo.
Kurogane si allontanò, non prima di aver gettato un’occhiata al biondo ancora seduto sull’erba.
Questo era rimasto immobile, inspirando a fondo per calmarsi.
Perché la chiamava Cometa Nera?
Perché questo era il suo nome, ecco la risposta. Cometa Nera S-10, per la precisione.
Ma non sapeva che cosa significassero la lettere ed il numero dopo il nome, e nemmeno perché gli fossero venuti in mente proprio in quel momento, riemersi a galla da quel pozzo oscuro che era diventata la sua mente.

Sulla pianura che circondava la capitale, un gruppo di uomini a cavallo era venuto loro incontro con sollecitudine.
I soldati vestivano tutti una livrea di uno scarlatto molto scuro, con una luna ricamata all’altezza del cuore. A capitanarli c’era il sovrano di Suwa in persona, vestito della sua armatura scintillante.
Aveva fermato l’alto destriero scuro di fronte a quello del figlio, e i due erano scesi di sella all’unisono. Kurogane aveva accennato un breve inchino nei confronti del padre, ma subito dopo si erano scambiati un abbraccio.
Il biondo aveva osservato, incuriosito, quell’uomo che aveva gli stessi lineamenti di Kurogane, a parte i capelli leggermente striati di grigio. Solo, l’espressione era più distesa, gentile, e lo scarlatto degli occhi si era mitigato, nel tempo, in un intenso nocciola scuro.
Padre e figlio si erano rivolti qualche breve frase. Il re era già venuto a conoscenza di quanto accaduto attraverso i resoconti dei soldati mandati avanti dal principe, e il racconto di quest’ultimo avrebbe potuto aspettare finché non fossero arrivati a palazzo.
Dopodiché, il re aveva rivolto intorno lo sguardo, e l’aveva fissato sul giovane ancora in sella.
Chiedendosi se non avesse dovuto farlo già prima, questo aveva fatto per scendere da cavallo, ma l’uomo lo aveva bloccato con un gesto della mano.
“Ero curioso di vederlo.” aveva detto il signore di Suwa.
Kurogane gli aveva rivolto uno sguardo interrogativo.
“Lo straniero con i capelli dorati.” aveva spiegato il padre, sorridendogli. “Tua madre lo ha sognato tre notti fa” aveva aggiunto, abbassando improvvisamente la voce.
Kurogane aveva annuito, gettando al biondo l’ennesima occhiata in bilico tra diffidenza e curiosità.
“Ripartiamo immediatamente per la città!” aveva annunciato poi a voce alta, rimontando a cavallo.

Come aveva scoperto in seguito il giovane straniero, la madre di Kurogane aveva il potere di sognare le cose prima che accadessero, o prima che ne venisse a conoscenza.
Quando l’aveva incontrata, la mattina del giorno seguente – dopo aver passato la notte in una delle stanza del palazzo, messa a sua disposizione in quanto improvvisamente elevato al rango di ospite – la donna gli aveva rivolto un sorriso dolcissimo, mentre lo osservava con i suoi gentili occhi scuri.
“Nel mio sogno – gli aveva spiegato – eri vestito di bianco, avevi i capelli scintillanti come tanti fili d’oro, ed emergevi da una foresta buia. Kurogane ti allungava una mano, e tu la stringevi. Certo, non era che un sogno…” del resto, le sarebbe stato difficile immaginare il figlio allungare una mano in maniera gentile a qualcuno che non fosse lei stessa, nella realtà “…ma al mio risveglio, ero certa che tu saresti arrivato qui insieme a loro.” lo aveva guardato sorridente, constatando che era accaduto proprio quello che si aspettava.
“Inoltre, se non ho capito male, tu non ricordi nulla di ciò che ti è successo o che ti riguarda, nemmeno il tuo nome, dico bene?”
Il biondo aveva assentito con un cenno del capo, e la regina aveva sorriso.
“Quella notte, nel sogno, ho pensato che tu ci fossi stato mandato dagli dei del cielo. E forse non è un caso, che tu sia comparso proprio dopo che dal cielo è caduta quella cometa. Nella lingua dei nostri antenati c’è una parola, fay, che significa ‘dono delle divinità’, o, meglio ancora, ‘dono dorato delle divinità’, e in fondo l’aggettivo su di te calza bene.” Aveva detto, alludendo alla capigliatura bionda dell’altro.
“Se vuoi, puoi portare questo nome, finché non ti sarai ricordato di quello vero.”
“Suona bene, Fay.” aveva risposto il biondo con un sincero sorriso di gratitudine.


***


Da quel giorno, Fay era stato il suo nome.
Kurogane non lo usava mai, però. Non aveva senso, secondo lui, chiamare qualcuno con un nome che non fosse davvero il suo.
Così, all’appunto di Fay, quel pomeriggio dopo il temporale, il principe si limitò a scrollare le spalle.
“Ancora nessun segno dei tuoi uomini?” chiese la regina.
Il principe scosse la testa in segno di diniego, accigliato.
Aveva mandato Gantai ed alcuni soldati di nuovo nella valle ad accertarsi che la situazione fosse rimasta stabile, e sarebbero dovuti essere di ritorno già da un paio di giorni, ma, anche quel pomeriggio, Kurogane era uscito a cavallo, spingendosi fino ai piedi della montagna, senza riuscire a scorgerli.
Era preoccupato – qualsiasi cosa fosse accaduta nella valle quella notte, aveva il presentimento che i danni non si sarebbero limitati alla distruzione del villaggio e delle vite dei suoi abitanti.
La regina lo guardò impensierita.
“Vedrai che domani torneranno.” disse alla fine.
“Lo hai sognato?”
“No. Ma è un presentimento.” rispose lei abbassando gli occhi e concentrandosi a sorseggiare la sua tazza di tè.
In quel momento, nel portico comparve un’ancella che portava del tè anche per lui, e Kurogane non replicò. Ma sapeva bene che, quando la madre parlava di “presentimento”, questo era destinato ad avverarsi al pari dei suoi sogni premonitori. Ciò che lo impensieriva, tuttavia, era il tono con cui lei aveva pronunciato quelle parole: nonostante il loro significato fosse rassicurante, c’era stato qualcosa, nella sua voce, che non lasciava presagire nulla di buono.

Come aveva predetto la regina, il giorno dopo, verso mezzogiorno, le sentinelle avvistarono il gruppo di soldati. Il signore di Suwa ed il figlio si affrettarono ad andargli incontro, ritrovandosi davanti un Gantai dall’aria preoccupata ed alquanto perplessa.
“Ci sono stati problemi? - chiese Kurogane dopo che si furono scambiati il saluto di rito – Avete dovuto affrontare i nomadi?”
“No, nulla del genere, maestà… - Gantai sembrava in difficoltà, come se stesse ripassando in fretta, nella sua mente, le parole che aveva scelto per esprimersi – Siamo arrivati fin sotto al passo e ci siamo accampati. Poi, il giorno dopo, siamo scesi nella valle, e… - improvvisamente, le parole che aveva scelto non sembravano convincere più nemmeno lui - …e la valle è completamente ghiacciata, maestà.”
Il re e suo figlio si guardarono, incerti.
“Ghiacciata… siamo in estate.” fu il commento laconico di Kurogane.
“Sì, beh, maestà… ci siamo stupiti anche noi. Insomma, è strano. E’ per questo, comunque, che ci abbiamo messo più del previsto. Era freddo, e muoversi su quel ghiaccio non è agevole, ecco.
Siamo arrivati alla cosa…alla cometa. Nella zona intorno, il ghiaccio sembrava più spesso, ed era… era scuro. Ma la cometa non ne era ricoperta, era sempre uguale a come l’abbiamo vista quel giorno, nera e lucida sotto i raggi del sole.”
Il signore di Suwa si incupì a quella descrizione. Aveva assicurato ai profughi che sarebbero potuti tornare alla loro campagna e a quello che rimaneva delle loro case, se non ci fossero state brutte sorprese. Invece, sembrava che ce ne fossero eccome.
“Quando poi siamo tornati indietro – stava continuando il tenente – abbiamo scoperto che il ghiaccio aveva raggiunto e superato il passo… eppure non avevamo trascorso nella valle che una giornata e mezzo!” concluse Gantai, chinando il capo come se la vicenda intera fosse colpa sua, o come se egli stesso stentasse a credere al suo racconto.
Di nuovo, padre e figlio si guardarono. Kurogane non dubitava delle parole del suo tenente, per quanto potessero suonare assurde.

Ne parlarono alla regina, non appena tornati a palazzo. Negli occhi della donna si dipinse immediatamente una grande tristezza.
“Avanzerà ancora – disse, non appena ebbe ascoltato la descrizione della valle ghiacciata – e ricoprirà anche questa pianura… lo sento.” aggiunse, rispondendo alla muta domanda negli occhi del marito e del figlio.
“E’ il caso di parlarne ai sacerdoti.” disse allora il re, e sua moglie annuì.
Il consiglio dei sacerdoti era formato da otto nobili anziani, esponenti di alcune delle famiglie più importanti ed altolocate del regno.
Il loro ruolo non era confinato alle questioni di culto – cerimonie del raccolto, occasioni ufficiali e quant’altro – ma si sostanziava anche nell’elargire consigli al sovrano a proposito delle materie più disparate, dalle questioni militari alle tasse.
In effetti, mentre i riti e le cerimonie erano appuntamenti fissi e di routine, le occasioni che i sacerdoti avevano di intromettersi nelle questioni di palazzo erano sempre molteplici e variegate. Questo aveva portato i regnanti di Suwa a sviluppare una certa diffidenza nei loro confronti, e a valutare attentamente quali e quante informazioni far arrivare alle orecchie degli anziani.
Tuttavia, un avvenimento simile non poteva non essere discusso anche davanti a loro.
“Dobbiamo riunire subito il consiglio. – disse la regina, le guance pallide leggermente arrossate dall’ansia – Ho fatto un sogno, stanotte. C’era il sole, e splendeva su una superficie chiara e scintillante… un lago, mi sono detta nel sogno.
Il cielo era limpido, senza una nuvola, c’era solo l’azzurro.
Poi, lentamente, davanti al sole è passata la cometa. Ho potuto vedere la sua sagoma nera stagliarsi netta contro la sua luce… e sulla sua scia, avanzava l’oscurità.
Man mano, il buio ha inghiottito il cielo, finché non è stato tutto privo di luce.
Era nero, tutto nero, il cielo, e il lago, al di sotto. Come se l’acqua avesse assorbito le tenebre di questa notte improvvisa… era un buio sbagliato, cattivo. E non sarebbe durato soltanto per una notte…” si fermò ad inumidirsi le labbra. Prima che uno degli uomini potesse commentare, tuttavia, proseguì.
“Credevo che fosse un lago, ma era immobile, privo di onde. Alla luce di quello che mi avete raccontato, avrebbe potuto trattarsi di una valle ricoperta di ghiaccio e neve… e se era ghiaccio, allora coprirà tutto. – terminò lentamente - Nel sogno, ho visto i tetti della nostra città sommersi sotto quella che credevo la superficie dell’acqua.”
I suoi occhi corsero subito alle vetrate della sala. Era pomeriggio, e il sole splendeva ancora alto sopra l’orizzonte, luminoso e forte nel cielo terso dell’estate.
Ma nello sguardo della regina c’era un grande struggimento, quasi lo stesse silenziosamente pregando di continuare a brillare come aveva sempre fatto, e di non lasciare che le tenebre cadessero sul loro regno e sui loro animi.

Fay uscì dal palazzo che stava calando il crepuscolo. La giornata era stata piuttosto calda, ma, con lo scendere della sera, dai monti aveva cominciato a soffiare sulla città un vento stranamente freddo.
Il giovane attraversò le strade, il mantello sulle spalle. Nonostante il repentino sbalzo di temperatura, quell’aria gelida non gli dava fastidio.
Si sentiva piuttosto allegro, in quel momento; stava pensando al suo nome. “Dono degli dei”… era bello che gli avessero permesso di portarlo.
Anche se Kurogane si ostinava a non chiamarlo in questo modo.
Chissà, forse pensava che un nome simile non gli si addicesse… o forse era solo troppo timido per pronunciarlo. Nonostante i suoi atteggiamenti burberi, Fay era giunto alla conclusione che Kurogane avesse dei lati teneri, sotto la dura scorza di guerriero.
Sorrise tra sé e sé, sbucando nella piazza principale della città.
Ma si rese conto improvvisamente di essere l’unico a sorridere.
Intorno a lui, capannelli di persone preoccupate parlavano concitatamente delle notizie portate dai soldati tornati dalla ricognizione nella valle - non erano certo novità che potessero lasciare indifferente la popolazione.
Fay riconobbe alcuni dei profughi che erano arrivati in città assieme a lui; vide gli uomini che, con sguardi grevi, parlavano a voce bassa, gli occhi rivolti ai monti da cui erano scappati.
Una donna li ascoltava, le mani che torturavano il tessuto del grembiule che indossava, il capo chino ed il volto arrossato: sembrava sul punto di piangere.
Fay abbassò gli occhi, e, improvvisamente, in quella piazza affollata dove nessuno gli aveva rivolto nemmeno uno sguardo, si sentì di troppo.
Non possedeva nulla, e si sentiva solo contento per l’idea che qualcuno gli avesse dato un nome. Ma quella sua piccola felicità gli sembrò tutto ad un tratto una grandissima colpa.
Che diritto aveva, lui, di chiamarsi “dono”, se la sua esistenza era iniziata lo stesso giorno in cui le vite delle persone in quella valle erano finite o cambiate per sempre?
Improvvisamente, si sentì responsabile di tutto quello che era accaduto, girò i tacchi e tornò in fretta verso il palazzo.



“L’eclissi era stata prevista da tempo, maestà.” Dichiarò uno dei sacerdoti con aria quasi indulgente, come se avesse di fronte una ragazzina capricciosa.
La regina lo scrutò con aria imperturbabile “Ho già assistito ad un’eclissi io stessa. Questa volta, sarà diverso. Non l’avrei sognato, altrimenti.”
L’anziano chinò il capo, in segno di deferenza.
“Qualsiasi ne sia la causa, quel ghiaccio non è naturale. Si sono ancora viste nevicate sulle cime più alte, anche all’inizio dell’estate, ma non è mai successo che il ghiaccio invada una valle, e che si espanda a una tale velocità.”
“Potrebbe essere la conseguenza naturale dello schianto di una cometa.” suggerì un sacerdote.
“Ammesso che sia naturale che una delle stelle si stacchi dal cielo e cada.” commentò un altro.
“Dopo lo schianto, quella valle era in fiamme, altro che ghiaccio. - puntualizzò Kurogane – Inoltre, la cometa non era ghiacciata, stando a quanto hanno riferito i miei uomini.”
Attorno al lungo tavolo di legno dove sedevano, per qualche interminabile istante, si fece un totale silenzio. Il signore di Suwa scrutava uno per uno i volti dei sacerdoti, le cui rughe non riuscivano a dissimulare le espressioni dubbiose. Accanto a lui, il principe incrociò le braccia, spazientito.
“Se quel ghiaccio avanza ancora, distruggerà i raccolti. Non è qualcosa che possiamo permetterci.” Affermò semplicemente il re dopo un po’.
“Non esiste modo di fermare l’avanzata di un ghiacciaio o di…qualsiasi cosa sia.” replicò uno degli anziani.
“Se la causa non è naturale, allora deve essere trovata e rimossa.” rispose con calma.
I sacerdoti si scrutarono in volto.
Alla fine, uno di loro – Tabkins, un uomo piccolo e molto anziano, i capelli candidi e sottili sciolti sulle spalle – fece per prendere la parola, ma l’uomo accanto a lui – Vaikaris, più robusto e meno anziano, una folta barba grigia che penzolava fino al piano del tavolo – si alzò in piedi e parlò al suo posto.
“Sire – esordì – come bene sapete, esiste una leggenda…” “Una profezia!” puntualizzò l’omino dietro di lui.
“…una leggenda che si tramanda qui a Suwa da generazioni.”
Dalla polvere di un tempo ormai dimenticato,
verrà il distruttore di mondi –
Verrà dalla dimensione del sangue
Dove la morte è un dono degli dei
Ed affronterà la vittima sacrificale –
Il cavaliere che domina il fuoco delle stelle

Recitò la regina a mezza voce. “Sono i versi scolpiti da secoli nella pietra del tempio” disse.
“Quando siamo venuti a conoscenza della caduta della cometa, alcuni di noi hanno suggerito che… ecco, che le due cose potrebbero essere collegate.”
Si fermò un momento per pensare a cos’altro dire, ed in quella Tabkins ne approfittò per saltare in piedi a sua volta.
“E’ un presagio di sventura, vostre maestà! – esclamò con voce raschiante – La distruzione della valle non è che l’inizio della distruzione di tutto il regno!”
Il suo collega gli rivolse uno sguardo di rimprovero, voltandosi poi verso i sovrani con aria di scusa, ma, prima che potesse parlare, il re lo bloccò con un cenno della mano.
“Quello che sta accadendo è già abbastanza stupefacente di suo. Non sarebbe incredibile, se l’unica spiegazione fosse riconducibile alle parole di quell’antica leggenda.”
A quelle parole, la regina chinò il capo. La voce del marito suonava decisa e forte, come sempre… ma lei sentiva che quello non era che l’inizio di un incubo.

Più tardi, abbandonata la sala del consiglio, i signori di Suwa si affacciarono dalla cima di una delle torri del palazzo, ad osservare silenziosi la città che si stendeva sotto di loro alla luce del crepuscolo, via via sempre più fioca.
A quell’altezza, il vento soffiava forte e gelido, e il re mise il suo mantello sulle spalle della moglie. Lei gli si appoggiò al petto, gli occhi che vagavano seri sui tetti delle case della loro gente.
“Più tardi riunirò i miei uomini. Dobbiamo andare a scoprire che cosa sta succedendo.”
Lei chinò la testa, cercando la sua mano e stringendogliela.
“Dormi con me, stanotte. – sussurrò – Ho paura dei sogni che potrei fare.”
Il re ricambiò la stretta.



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