lontano_lontano: (papavero)
[personal profile] lontano_lontano
Titolo: Il vaso della tyche*
Fandom: originale (Papavero)
Personaggi: Papavero
Genere: introspettivo, slice of life
Rating: PG
Wordcount: 1521 (fdp)
Riassunto: ...non riusciva a scacciare la sensazione incombente di trovarsi in perenne equilibrio sull'orlo di un baratro, equilibrio pronto ad essere spezzato alla prima folata di vento autunnale che avesse deciso di spingerlo da un lato o dall'altro.
Era come se ci fosse un vaso della tyche molto più grande, dove una mano gigantesca andava avanti a pescare bigliettini a ritmo inarrestabile.

Note: partecipa alla quarta settimana del COWT2 @ [info]maridichallenge, sconda missione, squadra Magic Sticks, prompt: autunno. E' ispirata ad eventi realmente accaduti (ovvero: c'è davvero un professore di greco che per interrogare usa questo "vaso della tyche" xD vabbe' che al liceo classico se non sono matti non li vogliamo, ma questa non l'avevo mai sentita finora)

*= Τυχη (tyche, in greco): caso, sorte, destino


Papavero aveva quattordici anni e quello era il primo ponte dei morti che passava al liceo classico.
O meglio, no. In effetti, era un ponte, si faceva vacanza, e quindi lui non era a scuola, per fortuna.

Accoccolato sul letto di camera sua, guardava la pioggia battere insistentemente sui vetri della finestra, sulla parete accanto. Il cielo era plumbeo ed incombente, scuro nonostante fossero appena le due del pomeriggio. Non era freddo in casa, ma il ragazzino si era comunque rifugiato sotto il plaid che di solito teneva ai piedi del materasso: gli dava un senso di sicurezza e protezione, l'essere avvolto in quel tessuto dall'odore e consistenza famigliari.
Mentre ascoltava il rumore della pioggia, sgranocchiava le caldarroste che la mamma gli aveva preparato e leggeva il librone che si trovava davanti. Era un appassionato lettore, Papavero, soprattutto durante pomeriggi come quello, dove non c'era niente da fare se non leggere, rigorosamente a letto, fare merenda (senza smettere di leggere) ed alzarsi dal letto solo per andare a fare la pipì. Erano bellissimi i giorni di vacanza.
A guastarli, comunque, erano già arrivati il greco ed il latino: sulla sua scrivania, severi, stavano gli eserciziari con le frasi che l'alunno doveva tradurre. Ne aveva già fatte alcune, quella mattina, e senza troppe difficoltà, ma trovare la voglia di staccarsi dal romanzo per finire quelle traduzioni ed imparare a memoria le declinazioni era tutt'altro che facile.

Papavero non sarebbe mai stato il primo della classe, ma avrebbe sempre trovato una certa facilità con le lingue antiche, cosa che gli avrebbe consentito di scivolare lungo i cinque, infiniti anni di ginnasio e liceo senza troppe difficoltà scolastiche... per quanto riguardava i voti, naturalmente. La scuola, nonostante l'opinione di molti compagni che vedevano quelle mura come una prigione da cui fuggire, una sorta di cassaforte a tempo che li ingoiava per poi risputarli fuori all'ora di pranzo, senza che quello che avveniva tra i banchi urtasse davvero le loro vite - quella stessa scuola avrebbe insegnato a Papavero molto di più che le declinazioni dei sostantivi di lingue ormai morte o dei pensieri di filosofi morti da anche più tempo. Molto di più.
Ma Papavero questo, naturalmente, non poteva ancora saperlo.

Tutto quello che sapeva era che si sentiva ancora un po' spaesato: rosso di capelli, le guance piene di lentiggini, aveva attirato su di sé l'attenzione il primo giorno. Presto, però, i compagni sembravano essersi annoiati di lui: non era un tipo estroverso, Papavero, a ricreazione non sgomitava al banco delle merendine per prendersi da mangiare, non fumava, non guardava MTV e non aveva piercing, tatuaggi o vestiti degni di nota.
Lo sguardo quieto dietro alle lenti dei suoi occhiali, Papavero aveva silenziosamente imparato l'alfabeto greco insieme ai nomi dei suoi compagni di classe, ai cognomi degli insegnanti ed all'orario settimanale delle lezioni.
Non aveva ancora le idee ben chiare su chi gli stesse simpatico e chi no, a dire il vero: per adesso, i compagni gli sembravano più o meno tutti uguali - certo, c'erano quelle tre o quattro ragazzine che avevano fatto gruppo da subito, che continuavano a scrivere messaggini sul cellulare durante le lezioni e che passavano le ore di ginnastica a spettegolare in un angolo; c'erano quei due ragazzi vestiti tutti di nero che, capelli lunghi fino alle spalle, tentavano di farsi crescere una barba altrettanto folta e nel frattempo ascoltavano musica strana; c'era quell'altro ragazzo con gli occhiali che aveva già preso tutti 8 e 9 dei primi temi... per il resto, non aveva inquadrato la parte rimanente della classe, e nemmeno gli insegnanti.
L'unico che gli era rimasto impresso, fino a quel momento, era stato il professore di latino e greco, forse perché era quello con cui avevano più ore, o forse perché insegnava materie così strane, chissà.
Questo era un signore un po' calvo, un po' cicciotto, dalla pancia e dalle guance tondette, un paio di begli occhialoni sul naso ed un guardaroba che sembrava comprendere solo maglioni dal collo a V color senape o malva (non che Papavero giudicasse le persone per il tipo di vestiario, naturalmente: tipico maschio di quattordici anni, viveva nella più beata e completa ignoranza di che cosa significassero termini come "abbinamento di colori" e "moda", naturalmente).
Quando aveva poggiato la sua cartella di cuoio scuro sulla cattedra, il primo giorno di lezione, aveva rivolto alla classe un sorriso strano, che voleva sembrare dolce o incoraggiante, forse, ma all fin fine risultava un tantino sadico.
Oltre ai libri ed al registro, aveva tirato fuori una buffa scatola di cartone scuro, oblunga, aveva tolto il coperchio e ne aveva sparso il contenuto sul tavolo: erano dei piccoli quadratini di carta bianca, tutti delle stesse dimensioni e dalla forma rettangolare. Sempre sorridendo, aveva contato gli studenti (una classe di venti tondi tondi) e aveva iniziato a scrivere su venti dei foglietti, copiando pedissequamente dal registro. Alla fine, aveva rimesso i foglietti scritti nella scatolina e ficcato gli altri in uno dei cassetti della cattedra.
"Mi sapete dire" aveva fatto poi rivolgendosi alla classe, che nel frattempo era rimasta in religioso silenzio, chiedendosi che diamine stesse facendo il professore e se per caso non si fosse dimenticato di loro "a che cosa serve questa?" aveva chiesto, indicando la scatola.
Dopo un po', una ragazzina con una lunga treccia bionda aveva alzato la mano e aveva detto che le ricordava il calice di fuoco di Harry Potter.
Il professore aveva sorriso ed aveva risposto, criptico: "Avrei preferito che vi ricordasse il vaso di Pandora, a dire il vero. Lo sapete cos'è il vaso di Pandora?"
Papavero lo sapeva, in realtà: aveva un grosso libro di miti greci, a casa, e li aveva letti tutti più di una volta. Non alzò la mano per rispondere, comunque, guardandosi bene dal ricordare la sua presenza al resto della classe.
Alla fine, a spezzare il silenzio pensò il ragazzino magro con gli occhiali, che disse che nel vaso di Pandora erano racchiusi tutti i mali del mondo e degli esseri umani.
Il professore aveva annuito gentilmente, e poi aveva preso in mano la fatidica scatolina.
"In realtà, questa scatola non è altrettanto spaventosa. Può contenere grandi mali ma anche grandi beni. Questo è il vaso della tyche - lo so che è una scatola di cartone, ma noi ci immagineremo che sia un vaso, perché suona meglio di scatola. Dentro" spiegò "ci sono i vostri nomi. Ad ogni lezione, io pescherò tre bigliettini dal vaso della tyche, e le tre persone a cui appartengono i nomi sui bigliettini saranno interrogate. Se l'interrogazione andrà bene, i nomi saranno tolti, se qualcuno prenderà un'insufficienza, invece, il suo bigliettino sarà rimesso nella scatola: continuerò a pescare i nomi fino a che non avrò interrogato tutti con esito sufficiente. Allora, riempirò la scatola di nuovo e ricominceremo." disse tranquillamente, ma, dalle facce degli studenti, sembrava stesse spiegando un nuovo, avanzatissimo metodo di tortura.

Il vaso della tyche... Papavero era un bravo studente, e il suo bigliettino non era mai stato rimesso nella scatola dopo un'interrogazione. Tuttavia, quel metodo bizzarro lo inquietava un po'. Tutte le volte che finivano le domande ed il suo bigliettino veniva riposto nel cassetto, tirava un sospiro di sollievo. Poi, però, quando il professore rimetteva tutti i nomi nella scatola e la agitava per mischiarli, ogni singolo studente sentiva un certo ribollire nelle viscere, come se si stesse decidendo la sorte di qualcosa di molto di più dei loro voti in pagella.

Fuori dalla finestra, la pioggia faceva staccare le foglie marroni dell'acero nel cortile del condominio, e Papavero ripensò ai loro bigliettini che venivano estratti a sorte. Alla prima estrazione, lo studente poteva finire col portarsi a casa un sei, un sette, un otto addirittura, ma come sarebbe andata alla seconda? E alla terza?
Papavero rimase a fissare come ipnotizzato le foglie che venivano trascinate a terra dalle gocce battenti.
Anche se la routine del ginnasio lo aveva assorbito senza traumi - si trattava sempre di svegliarsi presto, fare la cartella, andare a scuola, tornare a pranzo, fare i compiti, andare a dormire presto - non riusciva a scacciare la sensazione incombente di trovarsi in perenne equilibrio sull'orlo di un baratro, equilibrio pronto ad essere spezzato alla prima folata di vento autunnale che avesse deciso di spingerlo da un lato o dall'altro.
Era come se ci fosse un vaso della tyche molto più grande, dove una mano gigantesca andava avanti a pescare bigliettini a ritmo inarrestabile. Papavero non avrebbe saputo dire cosa sarebbe successo una volta che fosse uscito il suo nome - dal vaso della tyche potevano uscire sia grandi mali che grandi beni, aveva detto il professore, ed il ragazzo non sapeva davvero pensare che cosa gli sarebbe potuto toccare in sorte - ma aveva la costante sensazione che quelle enormi dita stessero ripetutamente sfiorando gli orli del foglietto con il suo nome, finendo sempre coll'afferrarne un altro.
Eppure, più il tempo passava, e più sentiva che quelle dita, alla prossima mossa, si sarebbero chiuse sul suo nome – Papavero temeva quel contatto, da un lato, ma dall'altro non vedeva l'ora di sperimentare il breve volo che avrebbe fatto la sua foglia, volteggiando nel vento e nella pioggia autunnali per quel breve tratto prima di arrivare a toccare il suolo.

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